Author : Riccardo Petricca

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Il Serpente Prudente – Un anno di serpenti

n. 40 (18/09/2017)

“Un anno di serpenti”

Un anno fa iniziava la pubblicazione di questa rubrica, con la prima puntata intitolata Presentazioni e precisazioni. Trascorso questo lungo periodo, e giunti ormai alla quarantesima puntata, credo opportuno formulare un bilancio di questa esperienza.

Le intenzioni, che originariamente erano state poste alla base del Serpente prudente, erano quelle di cercare di riflettere in maniera autonoma e propositivamente critica su fatti dell’attualità, alla luce della fede. A quelle, nel corso delle puntate si sono aggiunti altri spunti di indagine, più concentrati sul dettato evangelico. Infatti, alcuni interventi hanno cercato di analizzare il senso vero della fede cristiana, circoscrivendone i contorni in maniera meno sfumata e superficiale.

Se la fede presuppone un “fare” e non soltanto un affidamento più o meno consapevole a Dio, c’è da capire “cosa” fare. E nelle tre puntate dedicate alle esortazioni pasquali al digiuno, all’elemosina e alla preghiera, ho cercato di delineare un percorso pratico e concreto di come vivere il proprio essere cristiani. Ma il “cosa” fare ha bisogno di un “tempo” e di una prospettiva. Il tempo è quello della vita biologica di un individuo: è l’intera vita che deve tendere verso la prospettiva di compimento della volontà divina; la prospettiva è quella non di mettere in pratica un precetto per precostituirsi la moneta di scambio per un miracolo o un intervento divino: il vivere la fede è utile per farsi un tesoro nel regno dei cieli.

Gli anniversari legati alle apparizioni della Madonna sono stati lo spunto per alcune puntate che invece hanno cercato di fare il punto su quale sia il ruolo di Maria e dei santi nella fede del cristiano.

Più recenti puntate hanno invece cercato di fare il punto sul ruolo del cristiano intellettuale, su cosa significhi essere un costruttore di pace, e, sulla scorta della risposta che Pietro da a Gesù quando questi chiede agli apostoli chi credono egli sia, sulla necessità di guardare all’essenziale delle cose.

 Quando è iniziata l’avventura di questa rubrica, chiudevo la prima uscita con l’augurio che, condividendo queste riflessioni attraverso un mezzo di diffusione praticamente illimitata come un sito internet, ci potesse essere un dialogo e una discussione con quanti approvassero o disapprovassero le idee espresse dal Serpente prudente. La qual cosa finora è stata solo occasionale e limitata a pochi amici, che mi hanno fornito preziosi spunti ed indicazioni.

Ecco: ad un anno di distanza rinnovo nuovamente quell’augurio a non lasciare che questa rubrica sia un esercizio monologante, ma di partecipare con idee e spunti anche di critica purché propositiva. La fede, infatti, non è qualcosa che si vive in solitudine, ma s’arricchisce anche attraverso il confronto dialettico con gli altri.

 

Vincenzo Ruggiero Perrino

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La Sacra Famiglia di Nazaret

SACRA FAMIGLIA di Vincenzo Ruggiero Perrino – Episodio 20

SACRA FAMIGLIA

di Vincenzo Ruggiero Perrino

 

 

Episodio 20

Sepphoris, anno 1 a. C.

Gesù ha appena finito di prepararsi per uscire e raggiungere il padre a Sepphoris. Il programma della giornata prevede che lui e suo cugino Giovanni andranno a Sepphoris; passeranno le ore pomeridiane dai nonni; e, quando sarà ora di tornare a Nazareth, faranno la strada del ritorno con Giuseppe, che nel frattempo avrà finito di lavorare al cantiere.

Giovanni giunge puntuale e insieme cominciano a percorrere la strada per la cittadina in ricostruzione.

«Mi fa piacere andare a Sepphoris», comincia a dire Giovanni.

«Perché?».

«Rispetto a Nazareth è una grande città. C’è tanta gente, e sicuramente potremo incontrare nuovi amici. Cioè, di sicuro non ci annoieremo».

«A Nazareth ti annoi?».

«Beh, converrai che come città Sepphoris è più grande e più bella».

«Sì, ma io ti ho chiesto se a Nazareth ti annoi».

«A volte sì: vediamo sempre le stesse persone, facciamo sempre le stesse cose, ripetiamo sempre gli stessi discorsi».

«Le persone non sono mai le stesse ogni volta che le vedi e ci parli, né ripetono sempre le stesse cose, e anche quando fanno gli stessi discorsi, bisogna cogliere sempre la verità in ciò che dicono…».

«Dici?».

«Dico, dico! E, poi, se tu guardi con occhi nuovi tutto ciò che accade e ognuno che incontri, non ti annoi né a Nazareth, né a Sepphoris, né ad Atene!».

«Ma di sicuro a Nazareth non c’è il via vai di gente che c’è a Sepphoris. Lì c’è più possibilità di conoscere gente nuova».

«Intanto, dovremmo imparare a conoscere sempre tutte le persone, quelle nuove e quelle che ci sono già familiari… Ricorda, Giovanni, non si finisce mai di imparare».

Cammina cammina, finalmente i due giungono a Sepphoris.

«Che facciamo? Andiamo direttamente dai tuoi nonni, o ci facciamo prima un giro in città e magari mangiamo qualcosa?», chiede Giovanni.

«Credo che a quest’ora nonno Gioacchino stia ancora a lavorare nei campi. Mangiare qualcosa è un’ottima idea, visto che ho una fame da lupi!», risponde l’altro mettendosi a ridere.

Così, i due cugini giungono nel cuore di Sepphoris, dove ci sono tutti gli uffici amministrativi dei romani, le botteghe più belle, e una tale confusione di persone, carri, mercanti, che c’è quasi da rimanerne storditi.

«Mamma mia, quanta gente!», esclama Giovanni quasi incredulo.

In quel momento una biga trainata da un cavallo passa rumorosamente accanto ai due ragazzi. Gesù se ne accorge in tempo e tira per un braccio Giovanni, in modo da evitare che finisca per terra urtato dall’animale in corsa.

«Per poco, quella biga non mi travolgeva!», commenta Giovanni.

«Bisogna stare attenti… Del resto, lo hai detto stesso tu che Sepphoris non è Nazareth…», gli fa notare Gesù.

«Già».

I due gironzolano per un po’, restando sorpresi, ma anche frastornati dai rumori delle strade e dal continuo vociare della gente di Sepphoris. Finalmente, trovano una bottega dove si vendono focacce. Entrano e notano che anche nella locanda ci sono tanti avventori. Comprano una focaccia ciascuno e vanno a sedersi negli unici due posti liberi che trovano, quasi vicino al banco del venditore e di fianco ad un altro ragazzo che sta lì a mangiare da solo.

«Possiamo sederci vicino a te per mangiare?», chiede Gesù rivolgendosi al ragazzo, che, ad occhio e croce, dimostra qualche anno in più rispetto a loro.

«Ce mancasse pure, accomodatevi!», risponde l’altro, con un accento sconosciuto ai due.

«Ma tu non sei giudeo!», nota Giovanni, con un misto di sorpresa e sospetto.

«Che bella scuperta!», replica quello, continuando a mangiare.

«Di dove sei?», domanda ancora Gesù.

«I’ vengo ‘a nu posto luntano assaje: ‘na bellissima città d’ ‘a Magna Grecia, che se chiamma Neapolis … Forse n’avite ‘ntiso parl’, quacche vvota…».

«Caspita! Sei veramente venuto dall’altra parte della terra! E come mai ti trovi qui?».

«Patemo è ‘o segretario ‘e n’ommo assaje importante, che s’è trasferito cca pe’ cierte affare suoie, e m’ha purtato cu’ isso. Però i’ cca nun ce voglio sta’, e vulesse turna’ a casa mia, add’ ‘e cumpagne mie e add’ ‘a gente che parla ‘a stessa lengua mia!».

«Infatti, parli una lingua molto particolare… sembra quasi che canti quando parli!», dice Giovanni, non più sospettoso verso il ragazzo straniero.

«Lingua a parte, sei un tipo simpatico. Io mi chiamo Gesù e questo è mio cugino Giovanni!».

«Piacere, i’ so’ Cyrus», si presenta il ragazzo, ufficializzando la nuova amicizia con sorrisi e pacche sulle spalle.

«Buone ‘ste focacce!», esclama Giovanni, ottenendo il consenso degli altri due.

Intanto, dietro al bancone il cameriere, che, rallentato un po’ l’afflusso di clienti, ha cominciato a dare una pulita con uno straccio, comincia a dare segni di nervosismo. I ragazzi, sulle prime, non danno peso alla cosa, pensando che probabilmente quello dev’essere agitato perché la locanda è piena e quindi deve sgobbare un bel po’. Perciò, continuano a parlare del più e del meno: Gesù e Giovanni chiedono al loro nuovo amico notizie della sua città di origine, e l’altro si informa su cosa fanno i ragazzi di quella regione.

Ad un certo punto, i tre ragazzi e anche altri avventori della locanda si voltano tutti a guardare il cameriere che, a voce alta – quasi gridando – chiama il padrone.

«Che diamine gridi, stupido?», gli urla a sua volta il padrone, uscendo dalla cucina, vestito con una specie di grembiule che più sporco non si può.

«Padrone, è successa una cosa!».

«Cosa? Bada che, se è una delle tue solite manfrine per non lavorare, ti prendo a calci fino a domani!», lo avverte, assumendo poi una posa a braccia conserte, aspettando che l’altro gli spieghi cosa è accaduto.

«Ti ricordi la statuina in onore della tua defunta nonna?».

«Certo che me la ricordo, cretino!».

«Beh, non la trovo più!».

«Cosa?».

«Non c’è più, guarda tu stesso…», continua il cameriere, indicando la mensola che sta alle spalle di Gesù, Giovanni e Cyrus.

Mentre il padrone ispeziona il ripiano dal quale manca la statuina votiva, il cameriere rincara la dose: «Forse l’hanno presa questi ragazzini per rivenderla!».

Il padrone si volge di scatto verso il trio e sbraitando prende ad interrogarli se siano stati loro a far sparire la statuina.

«Avete preso voi la statuina della mia cara nonna?».

Risponde Giovanni: «Noi non abbiamo preso un bel niente!».

Gli fa eco Cyrus: «Vuje date retta a chillo? Nun simmo mariuole, stammo sulo magnanno e parlammo tra nuje!».

Interviene il servo: «Padrone non ascoltarli! Sono forestieri… probabilmente non hanno i soldi per  pagare e hanno rubato la statuina per rivenderla e pagarti le focacce!».

«Che scemenze so’ cheste?», chiede Cyrus, offeso per le accuse.

«Specie quello lì… non senti che parlata strana ha? Sicuramente è stato lui a rubare la tua statuina!».

«È vero! Tu non sei giudeo… Fammi vedere nella tua borsa!».

«Nun ce penzo proprio!».

«Di sicuro ha nascosto la statuina lì dentro! Chiama subito le guardie e falli arrestare!», seguita a dire il cameriere.

Al che, nonostante anche Giovanni cerchi di impedirglielo, il padrone strappa a Cyrus la sacca, e comincia a frugare dentro. Nella sala c’è un gran mormorio, e gli occhi di tutti gli avventori sono sui ragazzi.

Intanto Gesù, alzatosi in piedi, da uno sguardo alla mensola e sul pavimento tutto intorno, anche dietro al bancone dove il cameriere serve i clienti, accorgendosi che per terra c’è un pezzo di terracotta, che prontamente raccoglie.

«Qui non c’è niente!», esclama deluso il padrone dopo aver svuotato la borsa del ragazzo.

«Per forza!», replica Gesù. Tutti nella sala volgono gli occhi verso di lui.

«Perché dici “per forza”?», chiede il padrone.

«Tu hai creduto che noi avessimo rubato la statuina votiva della tua nonna, solo perché il tuo servitore ci ha accusati. Non hai manco voluto sentire le nostre spiegazioni e hai, anzi, ispezionato la borsa di Cyrus. Hai pensato: “È uno straniero, dev’essere per forza colpevole!”. Ma guarda qui cos’ho trovato!», spiega il ragazzo con voce severa, mostrando a tutti il pezzetto di terracotta che ha trovato.

Il padrone gli prendere dalle mani quel frammento, lo guarda ed esclama: «Questo è un pezzo della statuina! Dove lo hai trovato, ragazzo mio?».

«Fino a due minuti fa ero un ladro e ora mi chiami “ragazzo mio”? Comunque, quel pezzo era sul pavimento proprio sotto il bancone dove lavora il tuo cameriere…».

Il padrone si volge al cameriere e gli dice: «Hai fatto rompere la statuina di mia nonna e hai provato a dare la colpa a questi ragazzi?».

«Padrone, stavo pulendo… è stato un incidente…», ma non fa manco in tempo a finire la frase, che l’altro comincia a rincorrerlo per tutta la sala, prendendolo a calci davanti a tutti e cacciandolo fuori tra le risate degli avventori.

«Grazie, Gesù, si’ riuscito a’ evita’ che i’ fosse accusato ingiustamente», dice Cyrus.

«Di niente, amico mio… Io penso che la verità in un modo o nell’altro viene sempre fuori, per quanto uno voglia nascondersi o mascherarsi…».

«Già», chiosa Giovanni.

«È proprio ‘o vero. ê pparte mie ce sta nu pruverbio che dice: “Mariuliggine e puttaniggine, crepa ‘a terra e ‘o dice!”».

«E che significa?», chiede Giovanni che non ha capito.

«Chiù o meno che tutt’ ‘e malazione, pe’ quanto se vonno annasconnere, pure ‘a terra s’arape e ‘e conta a tuttu quante».

«Infatti, quando un tempo si dovrà lodare Dio per tutto quanto avrà fatto, se anche gli uomini dovessero tacere, saranno le pietre a gridare…», dice Gesù.

«Nun aggio capito…», gli fa Cyrus un po’ perplesso.

«Non ti preoccupare per ora: tutto ti sarà più chiaro tra una trentina di anni…», conclude quello, facendo sorridere il cugino.

Sulle prime Cyrus mostra di non capire, ma nel vedere Giovanni che annuisce, anche lui sorride. Poi, tutti e tre insieme escono, si salutano, e prendono le rispettive strade.

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Il Serpente Prudente – “Buoni e cattivi”

n. 39 (11/09/2017)

“Buoni e cattivi”

Sembra che il mondo sia più che mai diviso tra buoni e cattivi, un po’ come si faceva sulla lavagna della scuola: i cattivi sono quelli che commettono tutte le nefandezze che rendono la Terra un posto meno bello e meno sicuro; i buoni sono quelli che non fanno altro che sparlare dei cattivi.

In realtà il problema della evidente confusione tra le intenzioni (magari anche lodevoli) e le reali azioni (il più delle volte molto meno lodevoli) – tanto in uno scenario macroscopico, quanto nella più ordinaria quotidianità – nasce dal fatto che la distinzione tra bene e male, o buoni e cattivi se preferite, non è per niente netta, come di solito si è portati a credere, ma che siamo tutti in un’enorme fascia grigia, nella quale ci muoviamo convinti di essere buoni e pacifici, quando invece il nostro agire non ha in fondo in fondo nulla di buono o di pacifico.

Scorrendo le pagine dei giornali, o dando uno sguardo alla televisione, siamo continuamente informati di attentati, stragi, agguati di camorra, e violenze di ogni tipo: insomma, siamo immersi in un clima continuo di guerra, che contraddice in maniera sfacciata le chiacchiere di pace che invece sentiamo blaterare da più parti.

Non va certo meglio nei rapporti interpersonali, quelli in famiglia, sul lavoro, per strada: anche in questo caso bisogna onestamente riconoscere che viviamo in un continuo clima di reciproco biasimo e di strisciante violenza. Perché, è bene dirlo, “violenza” non è soltanto sparare una fucilata alle spalle di qualcuno, o farsi esplodere in una metropolitana nel nome di Allah o di chissà quale altro dio; è anche comportarsi in maniera sgarbata verso il vicino, buttare la propria immondizia dove capita, pretendere dagli altri comportamenti accomodanti che invece noi ci guardiamo bene dal mettere in pratica…

I cristiani, o sedicenti tali – me stesso in testa –, sono campioni in questo tipo di condotta. Lo sono oggi ma lo erano anche duemila anni fa: Gesù stesso ammonisce i suoi contemporanei che guardano la pagliuzza nell’occhio del prossimo, senza accorgersi della trave che è nel loro occhio. Questo tipo di atteggiamento, proiettato in una chiave di responsabilità nazionali e internazionali, fa sì che ci si trastulla allegramente con bombe nucleari capaci di annientare la razza umana…

Eppure, non ci sarebbe nemmeno bisogno di scomodare l’insegnamento di Gesù per capire che comportarsi nella dissennata maniera con cui l’umanità si rapporta nelle grandi e piccole questioni, sia una cosa abbastanza idiota, considerato che ogni atto di violenza contro l’altro, è un mettere a rischio innanzitutto se stessi.

Ma tant’è che gli umani sono abituati a pretendere dagli altri la soluzione a problemi che hanno creato loro stessi, che un seicento anni prima di Gesù, bisognava far capir loro che ognuno è custode dell’altro: Ezechiele (33, 1.7-9) lo dice con una chiarezza disarmante.

Sul tema, credo che uno dei fraintendimenti più diffusi, sia quello legato alla beatitudine riguardante i costruttori di pace (Mt. 5, 9). Nell’elencare i beati, Gesù definisce tali anche gli operatori di pace «perché saranno chiamati figli di Dio». Il fraintendimento nasce nel momento in cui si crede che l’operatore di pace sia colui che ama vivere tranquillamente, la persona pacifica, quella che camuffa da amore per il mondo e per il prossimo, un sostanziale disinteresse verso ciò che lo circonda.

Questi sono quelli che egoisticamente ricercano il quieto vivere, e poco importa se fuori dalla loro porta, magari qualcuno sta violentando una bambina, o sta appiccando il fuoco ad un barbone, o sta sversando uranio in un fiume. Non commettono in concreto nessuna azione cattiva, ma nemmeno fanno nulla per mettere in pratica un’azione buona.

E gli operatori di pace non sono nemmeno quelli che si limitano a parlare di pace (non che parlarne non serve, sia chiaro, ma è insufficiente senza l’azione concreta), o a ricordarsi del valore della fratellanza e della solidarietà quando c’è da cantare ad un concerto o protestare contro il taglio di una quercia secolare, o altre cose simili.

I costruttori di pace – i veri “buoni” – sono coloro che “fanno”, che agiscono in ogni modo lecito per costruire la pace, fosse pure all’interno del loro condominio. Il che è chiaro da ciò che dice Gesù: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi» (Gv 14, 27). Dunque, c’è pace e pace: la pace del mondo è quel modo di essere che non evita le brutture che ci circondano, ma ci fa credere la responsabilità delle cose che non vanno è sempre altrove, di un altro, ma non di certo nostra. La pace vera, invece, quella di cui parla Gesù, è una concreta azione per affermare la giustizia dei comportamenti.

Giustizia che per il cristiano coinciderà con l’amore verso Dio e verso il prossimo alla stessa maniera in cui ama se stesso; per il laico coinciderà con la fedeltà ai suoi valori morali di uguaglianza, libertà, coerenza. Ma in entrambi i casi, se veramente gli umani rifuggissero la pace del mondo per edificare la vera pace, e cioè si comportassero da operatori di pace, sarebbero beati già solo per il fatto di uscire da quella di uscire dalla “zona grigia” in cui non si capisce bene cosa è buono e cosa cattivo, e iniziassero a definire nella maniera giusta ciò che è bene e ciò che non lo è, senza confusioni, schermature e ipocrisie di sorta…

Vincenzo Ruggiero Perrino

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Il Serpente Prundente – L’Essenziale

n. 38 (04/09/2017)

“L’essenziale”

Cari lettori, dopo la pausa del mese di agosto, riprende con cadenza settimanale la rubrica de Il serpente prudente, per condividere con voi qualche riflessione costruttivamente critica sulla lezione biblica (più spesso evangelica), e sul complesso culturale di cui si sostanzia la fede cristiana.

Un paio di domeniche fa la liturgia proponeva una lettura tratta dal vangelo di Matteo (16, 13-20). Si tratta del noto episodio in cui Gesù, in un primo momento, chiede ai suoi amici: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Ascoltate le pressoché deludenti risposte che gli vengono riferite, Gesù si spinge oltre e chiede: «Ma voi, chi dite che io sia?».

A questa domanda segue la folgorante risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Risposta per la quale Gesù lo definisce “beato”, poiché questa Verità di fede gli è stata rivelata direttamente dal Padre che è nei cieli. Il che, ça va sans dire, conferma ancora una volta che la fede, quella vera di cui abbiamo parlato un bel po’ di volte nel corso delle puntate passate, è un dono di Dio. Un dono – si badi bene – che viene fatto alla generalità delle persone, senza che esse dimostrino specifiche qualità o particolari caratteristiche.

Il punto importante è, però, un altro: la disponibilità di Pietro non solo ad accettare quel dono, ma a professarlo e a viverlo. Infatti, egli mostra un tale convincimento nelle parole con le quali risponde, che Gesù immediatamente lo pone come “primus inter pares”, come la pietra sulla quale verrà edificata tutta la chiesa, come il baluardo contro il quale nemmeno le potenze degli inferi potranno prevalere.

Insomma: l’episodio è un’ulteriore conferma del fatto che chi vive un’autentica fede può veramente compiere le stesse opere che compie Gesù. Infatti, a Pietro viene dato il potere per cui ogni cosa che egli legherà in terra sarà legata nei cieli, e ogni cosa che scioglierà in terra sarà sciolta anche nei cieli.

Tuttavia, il fatto che Pietro sia stato tanto pronto dall’accogliere e vivere il dono della fede, non lo mette al riparo dalla tentazione di vivere secondo gli uomini e non secondo Dio. Infatti, proprio nella lettura evangelica di ieri, sempre Matteo ci racconta del rimprovero severo che Gesù gli rivolge nel momento in cui, avendo Egli cominciato a dire ai suoi apostoli che dovrà molto soffrire, Pietro gli dice sostanzialmente che nulla del genere gli dovrà mai accadere. Il che, ci fa capire che, sì, la fede è un dono e la sua professione è una scelta, ma non è nulla di definitivo ed assoluto, bensì una scelta che si deve rinnovare ad ogni bivio della vita.

Perché un semplice pescatore potè accogliere in modo così completo il dono della fede e diventare appunto la “pietra” per eccellenza della nascente chiesa di Gesù? A modesto parere di chi scrive, questo fu possibile perché egli fece un uso saggio della sua intelligenza critica – cosa che farà nuovamente più avanti nel racconto, e cioè quando comprenderà il suo errore nell’aver rinnegato Gesù, e anziché impiccarsi come Giuda, farà ammenda del suo comportamento.

Pietro, a differenza della gente della quale gli apostoli riferiscono le opinioni intorno al Figlio dell’uomo, non si limita alle apparenze. Infatti, era facile per chiunque dire che Gesù potesse essere la reincarnazione di qualche antico profeta o del contemporaneo Giovanni. Per sostenere una cosa simile era sufficiente vedere il suo stile di vita e il modo che aveva di parlare, o ascoltare le cose che diceva. Tutti sarebbero stati capaci di affermare che Egli altri non era che qualcuno dei profeti tornato per scuotere un po’ di coscienze, e preparare il popolo alla venuta del Messia.

L’apostolo Pietro, invece, guarda all’essenziale: capisce che Gesù non può essere solo la reincarnazione di qualcuno che è venuto già (e che non avrebbe alcun senso far tornare nuovamente sulla terra). Capisce che Egli è qualcosa di più e di meglio, appunto il Figlio del Dio vivente. In altre parole, Pietro guarda all’essenziale.

In verità i racconti evangelici ci informano che anche altri personaggi del tempo seppero cogliere, chi più chi meno, questa Verità. Un esempio, lo rintracciamo nell’episodio in cui Gesù si ferma ospite a casa dei suoi amici Marta, Maria e Lazzaro. In quell’occasione, mentre Maria preferì l’essenziale, e cioè stare ad ascoltare la parola di Gesù, Marta si dedicava alle faccende di casa, guadagnandosi il bonario rimprovero di Gesù, che invece la invitava a scegliere la parte migliore, quella che non le sarebbe mai stata tolta.

Di questi tempi, in cui l’essenziale è sempre più nascosto da una spessa patina di cose inutili e superflue, delle quali si potrebbe fare tranquillamente a meno senza alcun danno, questi ammonimenti tornano utili. Spesso, la nostra esistenza quotidiana è non solo caratterizzata, ma addirittura vincolata e imprigionata da oggetti, riti, fatti, che ci impediscono di avere la mente libera da condizionamenti di sorta per poter cogliere l’essenza delle cose migliori. Anzi, possiamo ben dire che anche lo stesso stile con cui si vive la nostra tanto sbandierata cristianità è incrostato da tante ruggini e appesantito da cose che poco o nulla c’entrano con la Verità, al punto che spesso chi tenta un approccio intelligentemente critico verso la parola di Dio è guardato addirittura con sospetto (quasi come se osasse scardinare regole date per assolute, ma che assolute non sono).

Guardiamoci intorno: nel mondo di oggi, nella quasi totalità dei casi, i rapporti umani vengono limitati ad un misero scambio di messaggi su whatsapp; l’informazione viene acquisita su siti che danno o versioni anestetizzate della verità, oppure forniscono falsificazioni della verità; l’esternazione di una considerazione, anche su fatti gravi o comunque importanti, viene fatta tramite un tweet; o ancora, un litigio si consuma non con un confronto personale, al limite anche ruvido o manesco, bensì con un “ti tolgo l’amicizia su facebook”.

Questa diffusa inautenticità colpisce un po’ tutti, cristiani e non. Infatti, se Gesù più volte richiama noi tutti alla ricerca di ciò che può essere utile a costituirsi un tesoro nei cieli, anche sul fronte laico, le menti più attente hanno sempre cercato di sposatre l’attenzione su ciò che nella vita è veramente importante. Non a caso, Pier Paolo Pasolini scriveva con straordinaria precisione: «Le cose superflue rendono superflua la vita». E, poiché la vita una sola è, bisognerebbe invece depurarla dalle cose vuote e sterili, e viverla per cogliere l’essenziale (e sforzarsi di fare questo ad ogni incrocio che incontriamo nella vita).

Vincenzo Ruggiero Perrino

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SACRA FAMIGLIA di Vincenzo Ruggiero Perrino – Episodio 19

SACRA FAMIGLIA

di Vincenzo Ruggiero Perrino

 

 

Episodio 19

Nazareth, anno 1 a. C.

Proprio fuori dalla scuola che Gesù frequenta con Giovanni e gli altri amici e amiche di Nazareth, c’è un piccolo campo, coltivato ad ulivi. Nei giorni in cui fa troppo caldo per andare a giocare sulle rive del lago, i ragazzi preferiscono andarsene in quel campo, in modo da potersi rinfrescare all’ombra delle piante.

Poiché oggi è una giornata particolarmente afosa, su proposta di Gesù, accolta entusiasticamente da tutti gli altri, finita la lezione, vanno tutti nell’uliveto.

«Oh, che bel fresco c’è qui!», esclama Rebecca, appena sono giunti.

«Già!», gli fa eco Elia, «Gesù ha avuto proprio un’ottima idea a venire qui oggi!».

Così, chi sotto una pianta, chi sotto l’altra, tutti siedono. Gesù anche si siede, benché un po’ più distante dagli altri.

«Ehi, voi, sapete cosa stavo pensando?», chiede a tutti gli altri Ismaele.

«Come facciamo a saperlo?», replica prontamente Giovanni, «Non siamo mica nella tua testa noi!».

Tutti ridono.

«Pensavo che i ragazzi greci e romani, che adorano tanti dei, per certi aspetti sono più fortunati di noi, che invece adoriamo un solo dio».

Non appena il ragazzo ha pronunciato queste parole, scende un silenzio profondissimo nel gruppo.

Sara, una delle ragazze del gruppo, si alza in piedi e gli dice: «Isamele, ma sei diventato scemo tutto d’un tratto?».

A quello della ragazza fanno seguito i rimproveri di tutti gli altri. Giovanni in particolare gli dice: «Sai che quello che hai detto è molto grave?».

«Perché sarebbe grave?».

«Cioè: tu hai detto che quegli altri ragazzi sono più fortunati, perché hanno tante divinità, mentre noi ce la passiamo male, dal momento che adoriamo un solo dio, e questo per te non è grave? Tu hai voluto paragonare quegli dei falsi all’unico vero dio!».

«Ma se non mi avete nemmeno fatto spiegare quello che intendevo dire…».

«Sentiamo…».

«Intendevo dire: adorare più divinità, avere più punti di riferimento, può essere comodo, perché se alla fine uno di questi dei non esaudisce una tua richiesta, puoi sempre rivolgerti ad un altro, e poi ad un altro ancora… Tra tante decine di dei, prima o poi uno che ascolta la tua preghiera lo trovi per forza!».

Giovanni scuote la testa in segno di disapprovazione: «Parli proprio come un fariseo!».

Anche gli altri ragazzi non concordano con quello che dice il loro compagno, ma nessuno di essi sa argomentare qualcosa di valido per sostenere la tesi che è sbagliato adorare tante divinità, piuttosto che l’unico vero dio.

Mentre la discussione diventa man mano più animata, un altro ragazzo, un tipo bassetto e scuro di carnagione, entra anche lui nel campo degli ulivi. La sua presenza non passa inosservata. Così, distratti dal nuovo arrivato, i ragazzi si concedono una pausa dai loro contrasti.

«Ciao, chi sei?», chiede subito Rebecca.

«Mi chiamo Giuda», risponde l’altro, accennando ad un sorriso.

«Cosa ci fai qui?».

«Veramente dovrei essere io a chiederlo a voi, considerato che questo campo appartiene a mio padre Simone», dice lui, ma senza perdere il sorriso.

«Non sapevamo che fosse vietato entrare!», esclama Elia, quasi a volersi discolpare.

«Ma io non ho detto che sia vietato entrare, ho solo detto che il campo è di mio padre… Potete restare quanto volete… Del resto con il caldo che fa, questo è un luogo ideale dove trovare un po’ di ristoro».

Così Giuda si unisce al gruppo di amici. E, prontamente, riprende la parola:

«Venendo qui, vi sentivo parlare piuttosto animatamente».

«Sì», spiega Giovanni, «Era iniziata una discussione riguardo al fatto che secondo Ismaele, i ragazzi greci e romani, adorando decine di divinità, sono più fortunati di noi che, invece, abbiamo un solo dio».

«Uhm… e da cosa deriverebbe questa fortuna?».

«Dal fatto che», continua Giovanni, «essendoci tanti dei, se uno di essi non ascolta la preghiera, ci si può sempre rivolgere ad un altro, finché non se ne trova uno che la esaudisce».

Giuda scoppia a ridere.

Ismaele, un po’ risentito, chiede: «Cosa c’è da ridere?».

«Amico mio, non ho mai sentito una cosa più buffa di questa!».

«Oh bella, e perché sarebbe buffa?».

«Prescindiamo pure dal fatto che il dio di Israele è vero e tutti gli altri sono falsi, va bene? Ammettiamo pure che anche quegli dei esistano davvero… Secondo te, perché anche uno solo di questi dei dovrebbe esaudire una preghiera, che un altro suo “collega” non ha esaudito?».

Ismaele non sa rispondere. Allora, si volta verso Gesù, che fino a quel momento era rimasto tranquillo a riposare al fresco di un’ombrosa pianta limitandosi ad ascoltare gli altri.

«Gesù, tu non dici nulla?», gli chiede, per tirarlo in ballo.

Giuda si volta verso Gesù; i loro sguardi si incrociano; e poi il nuovo arrivato nel gruppo chiede:

«E tu chi sei?».

«Io sono Gesù».

«Ed io Giuda».

Fatte le presentazioni, Ismaele, che dunque non ha idea di cosa ribattere alla domanda di Giuda, cerca di coinvolgere nel discorso Gesù, sapendo che lui è sempre bravo a trovare le parole giuste.

«Allora, Gesù, tu cosa ne pensi di quello che stiamo dicendo?».

«Io credo che sia un falso problema», comincia a dire, rimettendosi seduto.

«Perché?», chiedono un po’ tutti.

«Perché la questione non è che ci siano molti dei o ce n’è uno solo. Il punto è: perché si prega?».

«Spiegati meglio».

«È presto detto. Come dice Giuda, se anche esistessero tutti gli dei di cui parlano i greci e i romani, perché dovrebbero esaudire le richieste degli umani? Non bisogna pregare chiedendo che venga fatta la volontà degli uomini. Bisogna che gli uomini compiano la volontà di Dio… D’altra parte, nelle scritture è ben spiegata questa cosa… Davide diventa re perché egli compie la volontà di Dio… Non è che Dio lo rende re perché accontenta una richiesta di Davide!».

«Dunque, che senso ha pregare?», chiede ancora Ismaele.

«Quando tu preghi devi chiedere a Dio l’aiuto affinché tu possa compiere la volontà sua… e non chiedere per ottenere che un tuo desiderio venga accontentato».

«E qual è la volontà sua?», chiede Giuda.

«Ragazzuoli, mi sa che dovete andare in sinagoga e rileggere un po’ di cose!», dice con aria di bonario rimprovero Gesù, «Vi ricordate per caso la storia di Mosè e delle tavole della legge?».

Un coro di “sì” risponde alla domanda.

«Ebbene, in quelle tavole c’è scritto cosa bisogna fare per compiere la volontà di Dio… Né più, né meno…».

Dopo un silenzio di riflessione, Giuda esclama tutto contento:

«Amico mio, certo che tu di cose ne sai!».

Interviene prontamente Giovanni: «Mio cugino è uno forte!».

«Ah, siete cugini voi due?».

«Già».

«Tuttavia», prosegue Giuda, «temo che questa generazione non sia pronta per capire questi discorsi».

«Questa generazione ha il cuore indurito. Ma non per questo bisogna rinunciare a proclamare la verità», conclude Gesù.

Finita la discussione e calmati gli animi, i ragazzi si mettono a parlare di altri argomenti. Fattasi ora di tornare a casa, Giuda si alza in piedi per congedarsi dagli altri.

«Ragazzi, si è fatto tardi!», annuncia lui.

«Beh, anche per noi è tardi, e bisogna che torniamo a casa… altrimenti, chi la vuol sentire mia madre!», esclama, non senza un tono di preoccupazione, Rebecca.

«Sì, anche per me è ora di rincasare», concorda Elia.

«Mi ha fatto molto piacere fare la vostra conoscenza», dice Giuda, «Anzi, tornate pure qui ogni volta che lo desiderate!».

Avvicinatosi a Gesù e a Giovanni, che pure si sono preparati per ritornare a casa, gli chiede:

«Ci rivediamo, amici miei?».

«Ci puoi contare!».

Abbracciato poi Gesù, lo bacia su una guancia. Al che quello resta un po’ turbato, e dice:

«Di già? Non è un po’ presto?».

Giuda, pensando che si riferisca all’ora, risponde: «È tardi e devo tornare a casa».

«No, vabbè, intendevo…».

«Cosa?».

«Niente, niente… Ti sarà tutto più chiaro tra una trentina di anni… forse…».

Giuda resta a guardarlo con l’aria di chi non ha capito. Interviene allora Giovanni:

«Non fare quella faccia, Giuda! Devi sapere che mio cugino dice sempre questa cosa dei trent’anni…».

Lui sorride, e avviandosi verso casa, conclude:

«E, allora, tra trent’anni capiremo tutto…».

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Il Serpente Prudente – “La Semplicità”

n. 37 (31/07/2017)

“La semplicità”

Qualche domenica fa la liturgia della parola prevedeva come lettura evangelica il brano di Matteo (11, 25-27) nel quale Gesù si esprime in questo modo: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».

Si tratta di concetti che meritano una riflessione, dal momento che mettono in campo questioni piuttosto interessanti sul rapporto tra la fede e la conoscenza. Infatti, sembrerebbe quasi che le parole di Gesù tradiscono una certa ostilità nei confronti degli intellettuali e di quanti desiderino attingere alla sapienza e alla conoscenza. A mio parere, le cose stanno in maniera molto diversa.

Innanzitutto bisogna contestualizzare l’episodio in cui Gesù fa queste affermazioni apparentemente “anti intellettuali”. Infatti, poco prima, c’è l’episodio in cui Giovanni invia alcuni suoi discepoli da Gesù, affinché costoro gli chiedano: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?». Al che Gesù risponde loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me».

È evidente che Giovanni – che tempo prima aveva incontrato Gesù, quasi opponendosi alla sua richiesta di essere battezzato – non poteva non sapere che “colui che deve venire” fosse proprio suo cugino! Perciò, l’invio dei discepoli con quella precisa richiesta, si spiega nel senso che Giovanni vuole che siano proprio essi ad apprendere dal diretto interessato la sua natura messianica (il che fa pendant con il ruolo di precursore che al momento giusto esce dalla scena per far posto al vero protagonista della storia).

Subito dopo, Gesù dice che Giovanni è anche più di un profeta, è il messaggero che preparerà davanti a lui la via: «In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Dunque, poniamo un punto fermo: un profeta è sicuramente un uomo di fede, ma è anche un uomo di sapienza e di conoscenza. Tuttavia, tutto ciò non basta a garantirgli di essere il numero uno nel regno dei cieli, poiché il giusto atteggiamento per passare davanti anche a Giovanni nel regno dei cieli è quello della semplicità.

Ma proseguiamo. Il racconto di Matteo, dopo le parole su Giovanni va avanti, fornendo ulteriori indizi: «Allora si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida. Perché, se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, gia da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere. Ebbene io ve lo dico: Tiro e Sidone nel giorno del giudizio avranno una sorte meno dura della vostra. E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! Ebbene io vi dico: Nel giorno del giudizio avrà una sorte meno dura della tua!”».

Punto secondo: l’atteggiamento della semplicità quasi fanciullesca include una componente di riconoscenza e stupore tanto nei confronti dei doni della fede e della conoscenza, quanto nel senso complessivo del rapporto con Dio e con il prossimo.

Non sembra azzardato dire che la vera conoscenza e la vera fede non solo non si escludono vicendevolmente, bensì sono una parte sostanziale dell’altra: entrambe, se autenticamente vissute, sono necessarie per vivere con quell’atteggiamento di semplicità (che non è né inconsapevole e acritica accettazione, né passiva dabbenaggine), che Gesù loda.

La conoscenza che è invece di ostacolo alla fede è quella che si sostanzia di saccenza e presunzione, caratteristiche tipiche del vero fariseo, quali ce ne sono tanti anche oggi. Esemplare è l’episodio in cui i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani chiedono a Gesù: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?». Ma Gesù disse loro: «Vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi». Essi discutevano fra loro dicendo: «Se diciamo: “Dal cielo”, risponderà: “Perché allora non gli avete creduto?”. Diciamo dunque: “Dagli uomini”?». Ma temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un profeta. Rispondendo a Gesù dissero: «Non lo sappiamo». E Gesù disse loro: «Neanche io vi dico con quale autorità faccio queste cose».

La semplice risposta di Gesù zittisce i “sapienti” sacerdoti, che pure di conoscenza libresca ne avevano da vendere. Un po’ come gli intellettuali (o sedicenti tali) dei nostri giorni, che sanno dare opinioni su tutto e tutti, sparlano a sproposito di ogni cosa, cercando sempre di affermare una loro superiorità morale, mettendo spesso la verità in un angolo. Quello condannato da Gesù è l’uso sleale della ragione, perché si pone su un piano di mediocrità, tanto da risultare inutile per il mondo e per il cielo. Gesù infatti chiede un impegno (anche intellettuale) che sia innanzitutto un superamento della mediocrità e della superficialità («Chi si mette all’aratro e poi si volta indietro non è adatto per il regno di Dio», Lc 9, 62). È un monito che vale per il cristiano ma anche per il laico.

Non a caso, anche tra i laici autenticamente impegnati in un umanesimo che “rivoluzioni” veramente il mondo e la società umana, il messaggio non è tanto dissimile. Si legga per esempio il gustosissimo Romanzo dei tui (di recente edizione), purtroppo incompiuto, satira impietosa del cattivo uso dell’intelletto che fanno gli stessi intellettuali. E si rilegga quello che diceva uno scrittore del calibro di Pier Paolo Pasolini: «Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici […]. Non lo dico per retorica, lo dico perché la cultura piccolo-borghese è qualcosa che porta sempre della corruzione, delle impurezze, mentre un analfabeta, uno che ha fatto solo i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi la si ritrova ad un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice».

Vincenzo Ruggiero Perrino

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Concerto di Renzo Arbore a Sora

Nella serata del 22 Luglio 2017, presso lo stadio ” G. Panico” di via trecce a Sora si è tenuto il memorabile concerto di RENZO ARBORE E ”L’ORCHESTRA ITALIANA”.

ARBORE è stato intervistato dal bravissimo presentatore TONINO BERNARDELLI, nonché membro della Pastorale Digitale della nostra Diocesi (DIOCESI SORA CASSINO AQUINO PONTECORVO), il mitico RENZO ARBORE ha confessato che il concerto sorano fungeva da prova generale, visto che già dal 23 sarebbe iniziato il grande tour in giro per l’Italia. Bernardelli poi ha sottolineato la grande presenza artistica nel nostro territorio, e ha suscitato in Arbore i ricordi nei confronti dell’amico VITTORIO DI SICA (nativo di Sora), tutto questo non solo nell’intervista prima del concerto, ma anche durante il concerto, quando il presentatore è salito sul palco per una bellissima chiacchierata con l’artista, il quale ha ricordato anche che non era la prima volta che si esibiva a Sora, ma già tempo fa, dopo il successo di ”quelli della notte” c’era stato un suo concerto, sempre ricordato con affetto.

Il concerto è stato un miscuglio di brani e storie, raccontate dallo stesso Arbore, il quale ha emozionato e non poco, il vasto pubblico accorso per l’evento. Per non parlare della bravura dei 15 maestri dell’ ”ORCHESTRA ITALIANA” sul palco con lui, sempre molto presenti nei concerti, e come ha ricordato lo stesso Arbore ”il mio è un concerto collettivo”.

Durante il concerto il Sindaco di Sora, Roberto De Donatis,  ha consegnato ad Arbore una targa ricordo a nome di tutta la città.

Oltre a Tonino Bernardelli, anche altri membri della Pastorale Digitale della nostra Diocesi hanno collaborato attivamente per la buona riuscita dell’evento: Ilaria Paolisso, come Addetto Stampa per il COMUNE DI SORA, e Francesco Marra, come Video Reporter per un noto TG della zona.

Ci auguriamo di rivedere presto un concerto così a Sora!

Gianna Reale

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Il Serpente Prudente – Beatamente degni

n. 36 (17/07/2017)

“Beatamente degni”

Scorrendo le pagine del vangelo, non è difficile accorgersi del fatto che se c’è un filo rosso che lega le varie parabole e i “detti” di Gesù, esso andrebbe rintracciato nel costante riferimento ad una nuova forma di dignità dell’uomo.

Con un particolare importantissimo: la dignità, sulla quale Gesù fonda costantemente i suoi discorsi, assume delle sfumature completamente inedite nel panorama intellettuale del tempo in cui egli predicava, ma si rivela sorprendentemente inattuale anche oggi. In altre parole, sono passati duemila anni, ma gli uomini e le donne – cristiani o meno che siano – ancora non hanno saputo raggiungere la dignità di essere umani alla quale essi sono chiamati.

Il motivo è semplice fino all’ovvietà: l’uomo ha costruito tutta una serie di false apparenze di dignità, di sovrastrutture sociali, economiche, culturali, da nascondere a se stesso il senso più autentico e profondo della vita umana. E la cosa quasi divertente è che, prima ci si ingabbia in queste proiezioni assurde, e poi ci si lamenta pure che non si sta bene!

Chi si stia chiedendo qual è questo senso autentico della vita umana, può aprire a caso una qualsiasi pagina del vangelo, leggerla con il giusto taglio critico, e lo capisce immediatamente. La vera dignità umana risiede nell’aderire con fede al messaggio “nuovo” di Gesù: quella fede sulla quale più volte questa rubrica si è soffermata. Qui possiamo aggiungere che la sola fiducia – quel vago senso di deresponsabilizzazione dell’uomo, che vorebbe quasi che Dio si sostituisse a lui nelle scelte, col quale spesso si confonde la fede – sia del tutto antitetica alla dignità a cui l’uomo è chiamato.

Per meglio comprendere questa conquista della dignità attraverso una concreta azione individuale e personale, si può partire dall’etimologia della parola. “Dignità” viene dal latino “dignus”, che correttamente dovremmo tradurre con “meritevole”. Il corrispondente vocabolo greco è ἀξίωμα  (“assioma”). In matematica, un assioma è una verità evidente che non necessita di dimostrazione. Dunque: la dignità umana è un assioma: non ha bisogno di essere dimostrata, ma semplicemente riconosciuta dall’atteggiamento e dal comportamento proprio di chi è “meritevole e degno”.

Su di essa – naturalmente parliamo della “vera” dignità – si dovrebbe fondare ogni aspetto della società civile. Tuttavia oggi, come accennavamo poc’anzi, sono in voga altri modelli di dignità, che, lungi dall’essere assiomatici, presuppongono anzi una continua dimostrazione verso gli altri. Oggi ci si riempie la bocca della parola “dignità” a tutti i livelli. Noi italiani, infallibili nelle parole molto più che nei fatti, lo abbiamo finanche scritto nella Costituzione repubblicana, nella quale, l’art. 3, in maniera perentoria ed inequivocabile riconosce «pari dignità sociale» a tutti i cittadini. Peccato che, nella realtà dei fatti, sia sotto gli occhi di tutti quanto, proprio quelle istituzioni che dovrebbero assicurare la pari dignità sociale, in realtà non fanno altro che assumere quotidianamente atteggiamenti di aperto vilipendio della dignità altrui.

Non va certo meglio in ambito religioso. Sul punto invito i lettori di questa rubrica a dare uno sguardo ad un video su youtube relativo ad un “esperimento sociale”, in cui un attore finge di essere un mendicante davanti al Duomo di Napoli, chiedendo non soldi ma la possibilità di usare il bagno per potersi lavare la faccia e magari radersi la barba. Su centoventi persone fermate, appena due si offrono di dargli aiuto (e tra questi due, non figura il sacerdote al quale l’attore pure chiede aiuto)…

Vero è che nel corso dei secoli ogni popolo ha adottato parametri affatto diversi di dignità, stabilendo gerarchie sociali e regole. Il teologo domenicano Timothy Radcliffe scrive che «tutte le società rendono visibili certe persone e ne fanno scomparire altre. Nella nostra società sono ben visibili i politici e le star del cinema, i cantanti e i calciatori, che si presentano continuamente in pubblico, sui cartelli pubblicitari e sugli schermi televisivi. Ma rendiamo invisibili i poveri. Essi non compaiono nelle liste elettorali. Non hanno volto né voce».

Possiamo dire che la dignità di ci si parla oggi non si accompagna tanto all’aggettivo “umana”, quanto piuttosto ad altre formule legate al ruolo sociale e al ceto economico di ciascuno. Eco, perché accanto a persone “dignitose”, “meritevoli” di rispetto, si fa sempre più largo la pretesa dignità che poggia su disvalori, più o meno esibiti e spettacolarizzati, per garantirsi privilegi e benefici.

Se in ambito laico la dignità, per dirla con Aristotele, «non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli», ed è propria quindi di chi agisce per meritare onori e credibilità, per un cristiano essa è quella qualità che rende gli uomini il sale della terra. Infatti, Matteo ricorda l’ammonimento di Gesù sul fare attenzione a non perdere il proprio “sapore” di uomini, perché, al pari del sale divenuto insipido,  anche l’uomo senza sapore a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato (Mt 5, 13).

Cosa fare per avere sapore e quindi assurgere alla “nuova” dignità evangelica? Matteo lo spiega poco prima (5, 1-12): il comportamento delle beatitudini, che è una delle numerose estrinsecazioni ed esemplificazioni offerte dalla predicazione di Gesù a chiarimento di quel concetto di fede, che più volte è stato al centro di questa rubrica.

È evidente che il mite, il povero di spirito, l’afflitto, l’operatore di pace, sono tutte persone che “fanno” e non dimostrano assolutamente nulla; vivono la loro qualità senza sbandierarla ai quattro venti per essere riconosciuti tali. Ancor meno dimostra chi si comporta secondo lo spirito di quella, che in una delle prime puntate di questa rubrica, definii l’ottava beatitudine: “Beati quelli che non hanno niente da dire, e nonostante questo restano in silenzio”.

In questi tempi senza sapore, però, vi è un comportamento che l’uomo di fede ha quasi l’obbligo di assumere, per partecipare attivamente alla vita del suo tempo, imprimendo o almeno cercando di imprimere una svolta virtuosa all’ambiente sociale in cui vive ed opera. Come diceva don Tonino Bello, bisogna non soltanto “consolare gli afflitti”, ma anche “affliggere i consolati”, e cioè scardinare quelle convinzioni che poggiano su falsi valori e anestetizzanti parvenze di verità. Bisogna sempre sforzarsi di avere una visione costruttivamente critica della fede, dei comportamenti di chi pensa di agire con fede, di chi ritiene di aver conquistato una dignità che in realtà tale non è. Solo così potremmo dirci beatamente degni delle promesse di Cristo.

Vincenzo Ruggiero Perrino

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SACRA FAMIGLIA di Vincenzo Ruggiero Perrino – Episodio 18

SACRA FAMIGLIA

di Vincenzo Ruggiero Perrino

 

 

Episodio 18

Sepphoris, anno 1 a. C.

Stamattina Gesù è andato a Sepphoris con Giuseppe. A differenza delle altre volte che ha accompagnato il padre nella città in cui egli è impiegato, non è rimasto al cantiere, ma è andato a fare visita ai nonni materni che vivono proprio lì. Ha passato una piacevolissima giornata con Gioacchino ed Anna; poi, dopo pranzo, ha salutato i due e si è incamminato verso il teatro della città dove Giuseppe sta lavorando. Così, insieme padre e figlio torneranno a casa.

Gesù passeggia per strada guardandosi intorno: Erode aveva deciso di ricostruire Sepphoris imitando lo stile delle più belle capitali dell’impero romano. Del resto, tutti sapevano che il re non voleva inimicarsi i nuovi padroni della Palestina, e pensava che ricostruire una città – oltretutto distrutta proprio dai romani – secondo le tecniche dei romani, era una buona idea.

Le case non assomigliavano per niente a quelle di Nazareth o degli altri piccoli villaggi dei dintorni: erano più grandi e meglio rifinite. Le persone erano vestite in maniera molto più sfarzosa. C’era un gran via vai di oratori, maestri, medici, dottori della legge, scribi. Insomma: a Sepphoris ci tenevano a mostrarsi più valenti che altrove. Gesù pensò che costoro ebrei lo erano ormai solo di nome, ma di fatto erano romani in tutto e per tutto!

Cammina cammina, il ragazzo nota un personaggio strano: indossa vesti più umili, ha i capelli lunghi e crespi, e cammina avanti e indietro sotto il portico di un palazzo. In una mano tiene un rotolo di pergamena tutto scarabocchiato con appunti; sembra che stia parlando da solo, agitando l’altra mano in aria.

Colpito da quel tipo Gesù gli si avvicina e lo saluta:

«Ciao!».

«Salute a te, ragazzo!», replica l’altro, dando l’impressione di essersi appena svegliato da un lungo sonno.

«Ti ho visto da lontano».

«Ti sarai chiesto “chi è quel matto che cammina e parla da solo”, giusto?».

«Beh non ho pensato proprio questo, ma mi ha incuriosito il tuo modo di fare. Qui tutti sembrano molto impegnati a mostrarsi migliori degli altri, nel vestire, nelle case, nelle proprie professioni. Tu invece mi sembri diverso dagli abitanti che finora ho incrociato per strada».

«Ti ringrazio, ragazzo! Io sono un filosofo. A differenza dei miei concittadini non mi curo del lusso, della ricchezza, o della gloria. A me interessa rispondere alle domande importanti della vita: cos’è l’uomo? Qual è il suo fine? Cosa vuole da noi il cielo?».

«Il tuo accento ti tradisce. Tu non sei giudeo, vero?».

«Sono giudeo, ma per molti anni sono stato ad Atene a studiare presso un importante maestro di filosofia. Quindi il mio accento è stato influenzato da un’altra parlata».

«Il maestro a scuola ci ha spiegato che la Grecia è la patria di tanti filosofi».

«Ha detto bene. E, come ti dicevo poc’anzi, i filosofi sono diversi da tutti gli altri».

«Sembra che tu sia orgoglioso di essere diverso dagli altri!».

«E infatti lo sono!».

«Perché?».

I due si siedono su una panca di legno che è sotto il porticato in modo da poter chiacchierare tranquillamente. Così, il filosofo risponde alla domanda di Gesù:

«Tu hai visto tutti queste persone che correvano dietro ai loro affari e alle loro cose materiali. Io invece mi disinteresso di queste cose, e mi concentro sul pensiero, sulle parole, cercando di comprendere i grandi misteri della vita».

«E sei riuscito a comprenderne qualcuno?».

«Finora no», replica quello con un’aria un po’ triste.

«Non sarà perché in fondo non c’è alcun grande mistero da scoprire?».

L’uomo sussulta ed esclama:

«Tu non sai quel che dici ragazzo!».

Gesù sorride e continua:

«Io penso che tu corra dietro ad un mistero che non c’è. Cosa può esserci di misterioso nella vita? Piuttosto che farsi tante domande, bisognerebbe che tu la vivessi la vita!».

«Quindi, secondo te, io sono nel torto e gli altri nel giusto, vivendo la loro vita di dissolutezze?».

«Non ho mica detto questo! È evidente che inseguire i beni materiali, il lusso, la ricchezza, la gloria, il potere, sono comportamenti che facilmente possono portare l’uomo fuori strada».

«Oh, almeno su questo punto siamo d’accordo!».

«Sì, ma anche condurre una vita isolata, addirittura facendosi vanto della propria solitudine, impiegando il proprio tempo a pensare a cose “misteriose”, che misteriose non sono, può portare l’uomo fuori strada».

«Io almeno una strada da percorrere la cerco gli altri no!».

«Il punto è proprio questo: la via è proprio la vita».

«Ragazzo mio, sei più complicato di me con le parole!».

«Ti spiego: tu pensi che la vita ti sia stata data per trovare una via e giungere alla verità, giusto?».

«Sì».

«Io credo che la vita sia la via che porta alla verità! Non ci sono altre vie, se non quella di vivere la vita per giungere alla verità».

«Ragazzo mio, le tue parole sono ricche di un senso nuovo».

«Le mie parole sono ricche del loro vero senso, un senso antico. Il problema è che le vostre parole sono spesso prive di un vero significato, perché le avete consumate usandole in maniera eccessiva e spesso inconsapevole. Per dire cose nuove, avete bisogno di rigenerare le vostre parole. Dovete restituire loro il senso che è loro proprio. Tu sai cos’è la manomissione?».

«Se non sbaglio è un termine giuridico dei romani».

«Esatto, è la pratica giuridica con cui il padrone rende finalmente la libertà al suo schiavo».

«E cosa c’entra?».

«Se vuoi veramente che la tua vita sia la via che ti porta alla verità, almeno “manometti” le tue antiche parole: rendile nuovamente libere di significare qualcosa».

«Non è semplice!».

«No, non lo è, perché per fare questo devi essere libero nella testa e soprattutto nel cuore».

«Ma qual è la strada da seguire? Come bisogna comportarci verso gli altri e verso il cielo?».

«Questa è una domanda intelligente! La risposta è scritta nella Legge».

«La Legge è piena di precetti e di regole, che nessuno segue se non per farsi bello agli occhi degli altri e per criticare le manchevolezze degli altri, senza nessuno spirito di autenticità!».

«E ci risiamo con le critiche agli altri. Pensa per te, piuttosto che pensare agli altri…».

«Alla fine se presti attenzione alle cose che sono scritte nella legge, tutto è riconducibile ad appena due regoline semplici semplici».

«Sentiamole», fa quello un po’ incredulo.

«La via da seguire nella vita, per giungere alla verità, è amare gli altri come si ama se stesso e amare Dio come si ama se stessi. Facile no?».

«Ma tu sei un ragazzino… Come fai a sapere queste cose? Io dopo anni di studio non ero mai arrivato ad un conclusione del genere!», esclama il filosofo, stupito da tanta intelligenza.

«Basta leggere ciò che è scritto da secoli. Se io non amo essere derubato, ingiuriato, ucciso, è chiaro che nemmeno un altro amerebbe essere derubato, ingiuriato o ucciso. Quindi se io non voglio che lo si faccia a me, nemmeno lo devo fare ad un altro! E così è per quel che riguarda Dio…».

Il filosofo abbassa la testa, pensieroso. Poi, dici quasi come un sussurro: «Infatti, bastava solo leggere ciò che è scritto, invece di perdere tanto tempo a pensare e a riflettere… Avrei dovuto vivere!».

«Su, su, niente è perduto. L’importante è che ora è tutto chiaro!», dice Gesù, sorridendo candidamente.

 Segue un lungo momento di silenzio. Il filosofo guarda Gesù negli occhi. Alla fine si alza in piedi ed esclama:

«Grazie, ragazzo mio! Ho imparato più cose da te in mezz’ora, che in tanti anni spesi alla scuola di filosofia ad Atene… E non so nemmeno come ti chiami!».

«Gesù».

«Bene, credo che in futuro sentirò parlare di Gesù come del più grande filosofo di tutti i tempi».

«Ma io non diventerò un filosofo…».

«Non mi dirai che vuoi diventare un avvocato o un affarista».

«No, diciamo che in un certo senso quello che farò avrà a che vedere con via, verità e vita…».

«Non sono sicuro di aver capito…».

«Tranquillo, amico mio, tutte queste cose ti saranno molto più chiare tra una trentina di anni…».

[giugno 2017]

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Il Serpente Prudente – La presenza di Dio

n. 35 (03/07/2017)

“La presenza di Dio”

Una delle questioni più ricorrenti nel corso della storia è quella della “presenza” di Dio nelle vicende umane. Credo che un po’ tutti, confrontandosi con quanche problematica più o meno grave, abbiano avuto modo di riflettere su domande del tipo “dov’era Dio quando succedeva questa cosa?”.

Lo si è sentito dire, per esempio, in tanti film sulla shoah; lo si sente dire quando si vivono drammatiche esperienze di malattie gravi o incidenti che coivolgono giovani e giovanissimi; ma lo si sente pure dire per cose ben più banali come una sommessa andata male o un desiderio in qualche modo frustrato o non realizzato. Sostanzialmente la questione si riduce sempre ad una domanda fondamentale: se io mi comporto bene, perché mi succedono cose non buone o comunque Dio non ascolta le mie richieste?

Chi ha avuto modo di leggere le vecchie puntate di questa rubrica sa che una delle cose sulle quali ho maggiormente insistito è la dimensione concreta della fede cristiana. Perciò, dal punto di vista del serpente prudente la domanda poggia su un presupposto sbagliato e su una sostanziale confusione di ruoli. Ma procediamo con ordine.

Molto spesso, per non dire sempre, il “comportarsi bene”, che tanti ritengono essere il loro modo di vita, è in realtà una semplice assenza di azioni dichiaratamente negative. Un po’ una cosa del tipo: “Io non rubo, non uccido, non pronuncio il nome di Dio invano, quindi mi comporto bene”. Insomma, il bene che tanti sono convinti di fare consiste sostanzialmente in un “non fare il male”. Il che è solo una parte della verità.

Infatti, il bene che si dovrebbe compiere non può limitarsi ad un non comportarsi male. Sarebbe estremamente semplice e di fondo assomiglia tanto al comportamento di colui che ricevuti i talenti li va a sotterrare anziché ad investirli. Se rileggiamo attentamente quella parabola, colui che riceve i talenti e li sotterra, in effetti, non commette alcuna azione malvagia. Tuttavia, quando il padrone ritorna lo punisce proprio per il suo “non fare”.

Quindi: punto numero uno, fare del bene vuol dire agire, porre in essere un comportamento concreto e materiale.

Sul cosa fare, questa rubrica si è abbondantemente dilungata in numerose puntate, e non mi pare il caso di richiamare concetti già espressi. Diciamo solo che l’azione richiesta non è un’azione nell’ottica umana, bensì nell’ottica di una fedele adesione al progetto e alla volontà di Dio.

Bene, a questo punto la domanda diventerebbe: “se io compio la volontà di Dio, perché non mi succedono cose buone o Dio non esaudisce le mie richieste?”.

Tuttavia, anche in questo caso la questione è mal posta, perché poggia su una duplice disattenzione al dettato evangelico.

La prima: Gesù (tanto in Matteo quanto in Giovanni) dice «Qualunque cosa chederete nel mio nome, avendo fede, il Padre ve la darà». Sull’“avendo fede” rinvio alle puntante in merito.

Agostino d’Ippona poneva l’accento sul “nel mio nome”. Il nome di Gesù gli viene imposto (Mt, 1,21) «perché salverà il suo popolo dai loro peccati». Perciò solo chi chiede qualcosa riguardante la salvezza chiede nel nome di Cristo. Il che esclude tutte le richieste di vincita alla lotteria, ma anche tutte le richieste di salvare la vita di un innocente malato. Non caso, anche Giacomo scrive nella sua Lettera (4,3): «Chiedete e non ottenete, perché chiedete male».

Del resto chiedere di essere esauditi in un desiderio (fosse pure sorretto dalla più candida e sincera delle intenzioni), a fronte dell’aver fatto qualcosa di buono, sa tanto di do ut des, il che è fuori dalla logica divina (e in certi casi anche da quella umana). Tanto è vero che Gesù precisa che “il Padre ve la darà”, con il verbo è al futuro e non al presente, la qual cosa lascia intendere che il desiderio, osservate tutte le condizioni del caso, verrà esaudito in un tempo futuro.

E qui bisogna introdurre la seconda disattenzione. Nel dodicesimo capitolo di Luca, Gesù, dopo aver ammonito i suoi allocutori sul fatto di non preoccuparsi di ciò che mangeranno o di cosa indosseranno, li invita al cercare il Regno di Dio e tutto il resto verrà in aggiunta dato loro. Poi dice al versetto 33: «fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma».

Ne deduco che le “buone azioni” che si compiono in questa vita non hanno una finalità per questa vita. In altre parole, il bene che si compie non può essere merce di scambio da investire per ottenere l’esaudimento di una preghiera o di una richiesta. Bensì hanno valore solo nell’ottica futura di un tesoro inesauribile nei cieli.

Qualcuno potrebbe dire: “però molti che pregano Padre Pio ottengono la guarigione di qualche caro congiunto”. Sì, è vero. Ma questo non accade perché chi ha pregato e ottenuto sia stato più bravo di chi ha pregato e non ha ottenuto. Accade semplicemente perché la volontà di Dio e i suoi piani sono assolutamente imperscrutabili, e se Egli ha deciso in tal modo, non c’è spiegazione razionale che tenga. Non a caso, si parla di miracolo, proprio perché esce da una logica razionale.

Del resto, tutto il meccanismo della preghiera e dell’esaudimento ha un fine che è ben dichiarato nel vangelo: «perché il Padre sia glorificato nel Figlio», e non perché l’uomo sia accontentato nella sua richiesta.

Vincenzo Ruggiero Perrino