n. 27 (27/03/2017)
“Esortazioni quaresimali: 3) la vera elemosina”
Siamo giunti alla terza e ultima puntata riguardante le esortazioni quaresimali in vista della prossima Pasqua. Così, dopo aver detto qualcosa sul senso “pratico” della preghiera e su cosa bisognerebbe realmente fare per un “giusto” digiuno, oggi proverò a riflettere con voi sul senso che potrebbe avere la “vera” elemosina.
Normalmente e generalmente, l’elemosina, anche dai più ferventi cristiani, viene intesa come il lasciare quattro spiccioli nel bicchiere di carta, che qualche sedicente bisognoso regge in mano fuori la chiesa o all’angolo di qualche piazza. Altri, intendono l’opera di carità come un’azione da compiere nel momento in cui succede una sciagura o un cataclisma: si verifica un terremoto, ed ecco tanti che si mettono ad inviare un sms di solidarietà che, a detta di chi attiva il numero verde, farà arrivare ai poveri terremotati uno o due euro. Altri ancora si lanciano nella beneficenza a distanza: compilano un bollettino postale e inviano a qualche onlus un centinaio di euro all’anno, che serviranno a far mangiare e studiare un bambino per un anno intero…
Insomma, l’elemosina, cioè – secondo il vocabolario della lingua italiana – “ciò che si dona ai poveri per carità”, viene sempre intesa come un’azione a distanza, e sempre e comunque un dare una (irrisoria) cifra in denaro. Talmente generalizzata è questa idea di elemosina, che di fatto è stata adottata anche da pigri parroci e dai fin troppo attivi politici. I primi, nei momenti clou del calendario liturgico organizzano delle raccolte di denaro (con tanto di buste per rendere anonima la donazione), da mandare a questa o quella missione nel terzo mondo; i secondi fondano sulle donazioni televisive, telematiche, o telefoniche, per sovvenzionare la ricerca scientifica, gli aiuti umanitari, e probabilmente anche le attività dei loro partiti.
Presumo, che l’elemosina che si riduce al privarsi di pochi spiccioli, giusto per non sentirsi i lamentosi richiami dei poveri in strada, o per lavarsi la coscienza nel caso di una circostanza più drammatica, c’entri pochino con il senso “vero” che questa forma di carità debba avere per il cristiano di oggi.
Un ottimo punto di partenza è, per una volta, l’etimologia del termine. Elemosina è una parola che deriva dal greco, lingua nella quale essa esprimeva – guarda un po’ – la misericordia, la compassione. E, se la misericordia è il sentimento di intima commozione e attiva partecipazione all’altrui infelicità e miseria (morale e spirituale), è chiaro che l’elemosina non può limitarsi ad una banale regalia di denaro, oltretutto fatta per far vedere quanto siamo generosi. Infatti, lo stesso Gesù critica la ricerca della pubblica lode e della conferma di sé nell’atto di fare l’elemosina (Mt. 6, 1-4).
Dunque, quale potrebbe essere l’atteggiamento della vera elemosina? Se dev’esserci un’intima commozione (cioè un “muoversi con”), la prima cosa da fare è capire di cosa ha realmente bisogno il prossimo (cioè colui che ci è accanto, che non è per forza un amico o un parente, ma può ben essere un collega di lavoro, il cameriere del bar, o il cliente del negozio).
In tempi come questi dove la maggior parte degli uomini, da un punto di vista materiale, ha ben più di ciò di cui ha realmente necessità, i bisogni sono piuttosto di carattere morale che economico. Il più delle volte l’infelicità, benché proiettata sulla mancanza di un oggetto, di una somma di denaro, o di un bene specifico, è in realtà dovuta ad altro: solitudine, senso di inadeguatezza, incomprensione, incapacità di dialogare.
Una volta che ci si è mossi con il prossimo per capirne il disagio profondo che lo affligge, bisogna fare ben attenzione a non cadere in un equivocato senso della misericordia, e cioè l’empatia. L’empatia è quel sentimento che porta ad immedesimarsi nell’altrui sofferenza, ma in una forma passiva, di una condivisione soltanto esteriore, senza un’intima condivisione. Diciamo pure che l’empatia è una forma di compiaciuto crogiolarsi nell’infelicità altrui, cercando di provare anche noi la stessa cosa.
La vera misericordia, e dunque la vera elemosina, in realtà non può limitarsi ad una mera presa di coscienza del bisogno altrui, cercando di provare le stesse emozioni e sensazioni che l’altro prova (il che, oltretutto, non è nemmeno una cosa tanto semplice da fare).
C’è poi un altro dettaglio da non trascurare. Nel Deuteronomio (15, 10) leggiamo: «Dai generosamente e, mentre doni, il tuo cuore non si rattristi». Ciò significa che la carità richiede, anzitutto, un atteggiamento di gioia interiore. Offrire misericordia non può essere un peso o un dovere formale, come spesso accade quando compiliamo i bollettini per l’adozione a distanza.
Pertanto, all’attività e al fare, deve unirsi la consapevolezza della fede. In altre parole, questa dimensione “attiva” della vera elemosina, fa pendant con la concretezza della preghiera e del digiuno di cui parlavamo nelle due puntate precedenti. Soltanto chi ha vera fede sa come pregare, sa di cosa digiunare, e sa essere misericordioso verso il prossimo.
Il vero cristiano non può professare una fede soltanto nelle intenzioni o nelle parole: c’è la necessità di un atteggiamento di concretezza e di “tangibilità” nell’essere cristiani. Anche gli scribi e i farisei si ammantavano di una religiosità tutta esteriore. Non dubito che anche essi, vedendo la miseria e la fame del popolo, potevano provare quel sentimento di empatia e commiserare l’indigenza di quelli, ma non andavano oltre il donare loro parte delle offerte del tempio.
A noi invece è richiesto di essere misericordiosi come lo è il Padre: e la misericordia del Padre si è sempre manifestata in qualcosa di tangibile e concreto, senza limitarsi ad un piagnisteo del tipo: «Oh, poveri uomini, come capisco la vostra sofferenza». No: quando il popolo aveva fame, la manna dal cielo è caduta veramente…
Del resto, è Paolo (che era un uomo esattamente come noi) ad aver compilato un adeguato vademecum di cosa fare: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta».
Difficile non è: basta solo un po’ di sana coerenza tra ciò che affermiamo e ciò che mettiamo in pratica.
Vincenzo Ruggiero Perrino